Nel 1996 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha fornito una definizione di mutilazioni genitali femminili, intendendo con questa espressione “tutte le pratiche che comportano la rimozione parziale o totale dei genitali esterni femminili o altri danni agli organi genitali femminili, compiuti per motivazioni culturali o altre motivazioni non terapeutiche”. Con l’espressione “mutilazioni genitali femminili” (Mgf) si fa quindi riferimento a tutte le pratiche “chirurgiche” che comportano forme di rimozione, parziale o totale, dei genitali femminili esterni o loro gravi lesioni, effettuate per ragioni culturali o altre, comunque non terapeutiche. I termini infibulazione ed escissione, poco conosciuti in Italia fino a qualche anno fa, sono divenuti argomento dibattuto sia in ambito politico che sociale. Tali pratiche costituiscono per le donne, anche di età giovanissima, una grave sofferenza che trova radici nelle diverse culture, tuttavia inconciliabili con il nostro comune sentire. Secondo i dati dell’Oms più di 200 milioni di ragazze e donne sono state sottoposte alla pratica nelle regioni occidentali, orientali e nordorientali dell’Africa e in alcuni Paesi del Medio Oriente e dell’Asia, ed oltre 3 milioni di ragazze sono a rischio di Mgf ogni anno. Nel considerarle, pertanto, una grave violazione dei diritti, già diversi Paesi si sono confrontati con tale realtà emanando leggi ad hoc o modificando quelle esistenti. Il problema è stato sollevato, per la prima volta in ambito internazionale, dalla Commissione sui diritti umani delle Nazione unite nel 1952, mentre nel 1984 l’Onu creò un “Comitato interafricano contro le pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute delle donne e delle bambine” (Iac), con sede a Dakar (Senegal). Dai primi anni ’90, le Mgf vengono riconosciute dalla comunità internazionale come una grave violazione dei diritti delle donne e delle bambine. L’Onu, nel 2012, ha dichiarato il 6 febbraio Giornata internazionale della tolleranza zero contro le Mgf, in seguito al discorso tenuto dalla first lady della Repubblica Federale di Nigeria, Stella Obasanjo, alla conferenza del Comitato interafricano sulle pratiche tradizionali che inficiano la salute delle donne e dei bambini (Iac), in cui ha condannato ufficialmente le Mgf e ha parlato di tolleranza zero verso tali pratiche. Anche nel nostro Paese è sorta l’esigenza di affrontare, da un punto di vista normativo, il problema delle Mgf. La Legge 9 gennaio 2006, n.7 recante “Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile”, si propone di “prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di mutilazione genitale femminile quali violazioni dei diritti fondamentali dell’integrità della persona e della salute delle donne e delle bambine” (art. 1). La Legge ha introdotto un nuovo articolo al codice penale, l’art. 583-bis, che punisce con la reclusione da 4 a 12 anni chiunque “in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili”, ovvero pratica una “clitoridectomia”, una “escissione”, una “infibulazione” e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo”. Il secondo comma dello stesso articolo punisce, altresì, chiunque provoca, sempre in assenza di esigenze terapeutiche, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle precedentemente elencate, da cui derivi una malattia leggi tutto
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